Dal blog http://maidirepescarerevolution.blogspot.it/ traggo e riporto questa storia:
Sono nata da una covata di centomila uova in un grande fiume, ma solo dieci dei miei fratelli e sorelle è diventato adulto.
Le malattie che attaccano le uova, i crostacei e gli altri pesci che le mangiano, sono cose che accetti: la natura ci ha gestito così da millenni.
Quello che non accetti è che per fare la corrente elettrica che serve all’uomo, irrigare le sue coltivazioni e costruire strade e case, muoiono più uova di miei fratelli e sorelle di quante la natura avrebbe stabilito.
Poi da avannotto c’erano uccelli e pesci che ci mangiavano, ma quello lo accetti: la natura ci ha gestito così da millenni.
Quello che non accetti sono le reti che ci distruggono a milioni per venderci su un bancone di mercato, quelle reti che, se sei piccolo, ti ributtano morto in acqua perché non sei di taglia commerciale, quello che non accetti sono gli elettrostorditori di quei bastardi che con la scusa di uccidere gli indesiderabili ammazzano i miei fratelli e le mie sorelle, quello che non accetti sono quei pescatori di merda, con pantaloncini e canottiera che, bevendo birra con l’autoradio a tutto volume, ci lasciano crepare in una busta di plastica.
Insomma, la mia vita fino a diventare adulta era uno schifo, non tanto per la mia condizione naturale, ma perché ho avuto la sfortuna di nascere in un periodo in cui “l’uomo” dice di essere tecnologicamente evoluto.
Così un giorno, dopo oltre vent’anni passati a sfidare predatori, malattie, piene improvvise, siccità, faccio la cazzata di mangiare una pallina colorata: aveva un profumo magnifico, un sapore soave e…un amo di ultima generazione.
Ho tirato, ho lottato, ho fatto ogni cosa mi fosse possibile fino a farmi scoppiare il cuore, ma alla fine mi sono ritrovata dentro una rete triangolare attaccata ad un palo di marca.
Mi hanno infilato in un sacco di tessuto nero bagnato, ed ho viaggiato in un bagagliaio, fuori dall’acqua, per almeno mezz’ora tre quarti d’ora.
Ho sperato di morire, di farlo in fretta, perché il dolore da asfissia era atroce, la mia pelle bruciava, i miei occhi sembravano voler scoppiare.
Sentivo i due guidatori ridere ogni volta che mi agitavo, sbattendo dolorosamente pinna e fianchi, li ho sentiti dire frasi come “questa ce la pagherà bene”, “questa è più grossa di quella dell’altra volta”, “mi hanno detto che per le specchi e le amur pagano di più…”.
Poi il bagagliaio si è aperto, mi hanno sollevata e sbattuta in un fetido lago di terra, piccolo, torbido…che odorava di morte e di quelle palline che mi avevano fatto conoscere il dolore dell’amo.
Sono rimasta un po’ sotto riva, ho visto i guidatori prendere dalle mani di un altro uomo delle banconote, strette di mano, pacche sulle spalle, risate, poi si sono diretti al bar di quel posto…credo a festeggiare.
Quel posto era un incubo ad occhi aperti: non c’erano più gli alberi secolari sulla sponda, quegli alberi che mi avevano fatto ombra sin da quando ero nata, ma un grigio recinto fatto di rete metallica, panchine al posto dei massi di calcare, erba tagliata al posto della selvaggia e fiera sponda.
Dove gli uomini passavano o sedevano era pulitissimo, ma dove stavo io, a un metro dalla sponda, il fondo era pieno di bottiglie, lattine, plastica e quel fango fermentato che puzza e toglie ossigeno.
Ma agli uomini non interessa, perché a loro non interessa mai quello che non si vede.
Oggi la mia vita è ancora peggiore, e vivo in un incubo al cui confronto la morte sarebbe una liberazione: almeno una volta a settimana rivivo l’esperienza dolorosa della cattura, dell’asfissia, delle ferite in bocca, di cazzoni che si vestono in tenuta mimetica anche se in questo lago non c’è una pianta!
Giorno dopo giorno, le stagioni in questa vasca di morte sono sempre uguali, scopri che è arrivato l’inverno solo perchè vengono gettate dentro le trote: pesci ancor più sventurati, pesci nati sul cemento, che hanno conosciuto solo quello prima di crepare in qualche “gara dell’Impero”.
Tutte le mie sorelle e fratelli carpa in questo lago hanno una storia come la mia, e tutte avevamo la stessa colpa: eravamo l’attrazione turistica per quattro deficienti disposti a pagare perché non erano capaci o non potevano sfidarci in acque libere.
E qualche uomo si è approfittato prima di noi e poi della stupidità dei pescatori per arricchirsi.
Caro carpista: io come pesce non ho scelta, non posso scappare, ne posso suicidarmi per fuggire da questo martirio, ma tu puoi scegliere.
Puoi scegliere di venirmi a sfidare nelle acque dove sono nata, e anche se non mi catturerai godrai della stessa meraviglia che mi ha visto nascere e crescere, puoi scegliere di non arricchire quelli che mi comprano rubandomi dal mio mondo.
Tu puoi scegliere “che storie come la mia non accadano più…”.
1 commento:
Come al solito e come accade anche in molti altri campi (tecnologia, farmacologia ecc) è l'uso che se ne fa dei laghi privati che va condannato. é chiaro che essi sono una risorsa utile (per i portatori di handicap, per le famiglie con bambini piccoli, per anziani ecc.) e non vanno condannati.
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